giovedì 1 gennaio 2009

- Una recensione de “La passione del presente” di Marramao, con particolare riferimento al “principio delle differenze”


La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Recensione a cura di Patricia Mindus
(per chi vuole accedere all’intera recensione :
http://eprints.sifp.it/119/1/MARRAMAO.html)

”A distanza di un lustro da Passaggio a Occidente. Giacomo Marramao, uno dei più autorevoli filosofi politici italiani, torna a riflettere sullo stesso spettro di questioni – identità/differenza, oriente/occidente, sovranità/modernità – con un taglio metodologico preciso ma da un’angolazione diversa. …
svincolandosi dal principio della territorialità che era stato consacrato dallo stato sovrano westphaliano, diviene “modernità-mondo”: «il processo che, a partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, si sta svolgendo sotto i nostri occhi altro non è […] che un impervio passaggio a Nord-Ovest di tutte le culture: un periglioso transito verso la modernità destinato a produrre trasformazioni profonde nell’economia, nella società, negli stili di vita» (p. 27). Come ogni passaggio, anche questo ha intrinsecamente la sua dimensione di viaggio e mutamento, rischio e opportunità. E, con il globalizzarsi del modello occidentale, il problema dell’alterità culturale non si configura soltanto come un urto con l’esterno, ma come un’aporia interna al funzionamento della società occidentale stessa. Mutuando da Roland Robertson il neologismo glocal che testimonia la paradossale compresenza del globale e del locale, della de- e della ri-territorializzazione, o della loro relazione interfacciale, Marramao sostiene che i due fenomeni non sono solo co-presenti, ma co-appartenenti (cf. pp. 169 ss.). Questo aspetto sfugge tuttavia alla visione unilaterale del processo di globalizzazione, sdoppiato, per un verso, nella fine della storia (positivamente per un Francis Fukuyama e negativamente per un Serge Latouche che riprende così il tech-determinism di Jacques Ellul) e, per altro verso, nella profezia (che tende ad autoavverarsi) del clash of civilizations alla Huntington. Piuttosto, bisogna cogliere l’aspetto paradossale della nostra era. In particolare, la «produzione globale di località» dove proliferano le «nazioni degli eccentrici» (p. 184). La tensione insita nella tenaglia del glocal, in questo tempo «sospeso tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sopranazionale» (p. 84), sprigiona un conflitto identitario a causa del vuoto politico determinato dall’assenza di una governance globale e di una mediazione istituzionale legittima. La specificità della lettura di Marramao consiste, a questo punto, nel mostrare come le politiche identitarie non sono semplicemente pre-moderne, ma questa «frantumazione della società civile globale in una pluralità di “sfere publiche diasporiche” rappresenta un fenomeno reattivo: un meccanismo di difesa-risposta a questa globalizzazione» (p. 32). Il filosofo italiano pare vicino all’idea di Fernando Savater per cui, ad esempio, le chiese europee della vecchia modernità reagiscono ora come per invidia dell’islam e della sua propulsione teocratica. Marramao, nondimeno, legge lo scontro identitario in termini innovativi, tenendo sullo sfondo gli studi sulle migrazioni che hanno insegnato come questi fenomeni precedano in genere le grandi trasformazioni politico-culturali: «la forma del conflitto globale appare assai più prossima alle guerre di religione che precedettero la nascita dei moderni Stati secolari che a uno scontro tra presunti monoliti culturali. Il fatto che le religioni siano un momento importante del conflitto globale appare ai miei occhi un riscontro in controluce della tesi che ho tentato di delineare in Passaggio a Occidente» (p. 34). Prima di addentrarci nelle specifiche logiche identitarie conviene pertanto riflettere sulle «diaspore della speranza, diaspore della disperazione e diaspore del terrore» (p. 184). A caratterizzare, sul piano esistenziale, la costellazione della Jetztzeit è innanzitutto la sindrome della fretta (pp. 89 ss.). Esplorando un tema che lo vede impegnato da molti anni, ovvero la dimensione cairologica del tempo, Marramao insiste sul tratto saliente del nostro presente che non è tanto la dromomania (Virilio), né l’accelerazione della tecnica globale (Koselleck), e neppure la discrasia tra senso interno ed esterno del tempo (Bergson). La characteristica universalis del nostro tempo è piuttosto «la fretta, l’accelerazione insensata e imprudente, [che] manca il bersaglio esattamente quanto la lentezza, l’esitante indugio. Fretta e lentezza, precipitazione ed esitazione, non sono che due forme speculari di intempestività» (p. 99). Non è immediatamente facile comprendere in che cosa la fretta si differenzia dall’accelerazione del tempo sociale come studiato da Thomas Hylland Eriksen, William Scheuerman e Helmut Rosa, o ancora dall’accelerazione temporale della neuropolitica di William Connolly. Viene specificato, tuttavia, che si tratta di una fretta «che fa tutt’uno con lo statuto a un tempo securitario ed emergenziale di un’attualità dominata dal ritorno della coppia angoscia/politica e dal conseguente uso politico della paura» (p. 94), dovuta, in ultima analisi, ad «un fattore patogeno: l’autonomizzarsi del Progetto moderno di matrice illuministica […] dalle finalità e dagli obiettivi che originariamente lo limitavano» (p. 100). L’ultima parola sulla diagnostica del presente è quindi che il tempo non pare più essere a disposizione, ma il futuro sembra già passato. 2. Per uscire dallo stallo occorre raccordare tempo privato e tempo pubblico nel momento debito, e perciò servono mezzi per giungere alla meta. Riguardo agli strumenti teoretici, l’autore parte dal presupposto che «occorre operare una drastica conversione dalla fase decostruttiva a quella ricostruttiva» (p. 42). Bisogna riformare la cassetta degli attrezzi della riflessione filosofica, aggiornando la Kulturkritik. Fra i dispositivi che l’autore predilige, particolare attenzione va riservata alla proposta dell’universalismo della differenza, laddove non si tratta di differenze che finiscono inequivocabilmente per riprodurre il cortocircuito della “nostalgia del presente” tipica della politica identitaria. La differenza – si leggeva in Passaggio a Occidente – è «un vertice ottico» che ci costringe a modificare la prospettiva. Si tratta di un’idea che, in ultima istanza, riposa sulla consapevolezza che l’identità non può che essere quella di un multiple self, come era già stato sottolineato da Derek Parfit e Jon Elster (cfr. pp. 64-67). Ne La passione del presente viene chiarito maggiormente come la differenza serva a «infrangere, sul terreno pratico, l’isometria di istituzioni democratiche strutturalmente incapaci di venire a capo delle nuove forme di conflitto. Lungi dal voler essere una terza via fra universalismo e differenze, […] la mia proposta intende ricostruire l’universale non dall’idea del comune denominatore, ma dal criterio della differenza […]. Il principio ricostruttivo dell’universale può essere dunque inteso solo […] a partire dal presupposto della inalienabile differenza singolare di ciascuno» (p. 37). La soluzione non è una politica che cerca il minimo comune denominatore, quanto una politica che stabilisce punti di contatto, secondo la cifra di un cum-tangere nella contingenza. Il modo di attuazione non può che passare, in primo luogo, attraverso la com-prensione culturale alla quale serve come linfa vitale l’attività del tradurre. È pertanto necessario muovere dall’assunto che «ogni cultura è un mondo, una costellazione di simboli e di valori da analizzare innanzitutto iuxta propria principia» (p. 38). Di qui una questione fondamentale: «fino a che punto sostenere l’esigenza di una pratica interculturale – e non metaculturale: una sorta di view from nowhere – dei valori (e delle scelte) consente di fuoriuscire dalle posizioni contestualiste, autorizzando l’adozione della formula universalista reason before identity?» (p. 63).